All’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti la mostra “Oltre” di Tesfaye Urgessa

Un flusso spontaneo delle immagini generate dalla mente dell’artista e registrate in contemporanea su una pluralità di tele. C’è tutta l’arte del Novecento, a partire dalle avanguardie, nel linguaggio di questo giovane artista nato ad Addis Abeba nel 1983 e nel 2009 trasferito, grazie a una borsa di studio, a Stoccarda, dove insegna e lavora: ed è l’arrivo in Europa a segnare profondamente il suo modo di dipingere . Urgessa trasforma infatti l’incontro dal vivo con l’arte del XX secolo (dall’espressionismo tedesco alla School of London) in un’occasione di confronto in chiave di superamento, elaborando una potente cifra identitaria che gli garantisce l’apprezzamento della critica e del mercato dell’arte .Disegnando a partire da una miriade di influenze (inclusi il periodo manierista e la scultura africana) svilupperà il suo personale linguaggio artistico.
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Le trentacinque opere esposte nelle sale dell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti registrano una vulcanica creatività con una selezione che privilegia la produzione degli ultimi due anni tranne per qualche significativa eccezione. Così se Trapped in the flesh – quadro dipinto in occasione della mostra fiorentina – è stato scelto come focus di apertura, il percorso vero e proprio si snoda cronologicamente a partire da Waiting del 2010, opera emblematica del periodo in cui Urgessa, appena giunto in Germania, coglie con uno sguardo disincantato la solitudine del mondo occidentale, i suoi riti, le sue fobie.
A motivare l’artista non sono tuttavia intenti narrativi o di denuncia sociale, bensì la volontà di attivare con lo spettatore un dialogo basato su un terreno condiviso di vissuto. Si veda ad esempio la serie di dipinti Die Beobachteten – che ha avvio nel 2014 e di cui si espone il diciottesimo e più recente titolo – nella quale Urgessa, utilizzando una prospettiva dall’alto tipica delle telecamere di sicurezza, sollecita uno scambio di ruoli tra chi guarda e le figure del dipinto, le quali, scrutando verso l’esterno si trasformano da “osservati” in “osservatori”.
Tale reciprocità implica tuttavia anche il coinvolgimento di Urgessa che è solito immedesimarsi a tal punto nelle sue figure da ricalcarne inavvertitamente le pose mentre le dipinge sulla tela: «Se qualcuno si riconosce nelle mie figure così come io mi riconosco in loro, allora necessariamente si riconoscerà in me», dichiara infatti a riguardo.
Ad attivare questa triangolazione esperienziale sono grovigli di corpi, talvolta deformi e mutili, sempre rigorosamente nudi, accostati a oggetti prelevati dalla quotidianità secondo logiche private, che riempiono le tele con soluzioni estreme ma bilanciate, suscitando domande ed evocando memorie. Neppure Urgessa conosce la provenienza di quelle forme che affiorano senza sosta nella sua mente, trasformando la costruzione del dipinto in un sofferto scontro in cui i “pentimenti”, spesso radicali, rappresentano una tappa pressoché obbligata. Non c’è infatti premeditazione nelle sue composizioni, ma un’adesione alle logiche dell’inconscio e del caso in un’accezione talvolta ironica, talvolta irriverente.
La mostra espone anche un disegno e quattro monotipi a esemplificare la dimestichezza di Urgessa con le tecniche e i materiali. Pur avendo oggi a disposizione un grande studio a Nürtingen, nei pressi di Stoccarda, l’artista continua a disegnare spargendo le carte sul pavimento proprio come al suo arrivo a Mannheim nel 2009 quando, non avendo altre possibilità, stendeva i fogli per terra, lasciando che l’impronta di una suola o una goccia di caffè caratterizzassero l’opera.
Nel percorso è anche presente uno dei tre autoritratti dipinti da Urgessa in omaggio alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, esposto in simbolico pendant con un ipnotico Ritratto d’uomo: non un autoritratto fatto allo specchio o tratto da una fotografia, ma un autoritratto “a memoria”, passato anch’esso al vaglio della potente immaginazione dell’artista.
Alessandro Lazzeri